Crespi Daniele

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DANIELE CRESPI, IL GIOVANE GENIO

Daniele Crespi è figlio di Gaspare. Nato probabilmente a Milano, discende da una famiglia di Busto Arsizio ed imparentato con Giovan Battista Crespi detto il Cerano, forse un lontano cugino.

Nella trascrizione nel registro dei morti avvenuta il 19 luglio 1630 a causa del decesso avvenuto per la peste, viene descritto di anni trentatre. Lo stato delle anime della parrocchia di Santa Eufemia, lo segnala nel 1610, con l’età di dieci anni.

Si può presumibilmente assegnarli quindi la data di nascita tra il 1597 ed il 1600.

Tra il 1617 ed il 1619 periodo in cui si documentano i primi lavori, ha quindi una età presunta tra i diciassette e i venti anni.

In considerazione della sua precocità come pittore, si può immaginare che entri molto giovane, intorno ai quattordici anni, come apprendista in una delle botteghe attive a Milano all’epoca.

Per affinità stilistica e per la vicinanza culturale e figurativa con i dettami della controriforma propugnata in particolare modo dai padri barnabiti e da padre Lorenzo Binago, allora impegnato tra gli altri lavori alla edificazione su suo progetto principale, la chiesa di Sant’Alessandro in Zebedia, non sembra da scartare l’ipotesi che il Crespi entri a bottega con Camillo Procaccini, tra il 1611 ed il 1614.

Il celebre pittore bolognese infatti da almeno un ventennio risulta il maggiore diffusore dei canoni post tridentini sotto l’ombrello protettivo proprio dei padri barnabiti. Egli ha saputo adeguare il proprio stile primigenio alle nuove istanze e giungere ad una sintesi  originale e convincente.

Il successo è tale che riesce nel 1590 circa, a rendersi autonomo giuridicamente dall’ingombrante figura del padre Ercole e quindi nel 1605 a comprare casa nell’ambito della parrocchia di San Calimero, con annessi i locali adatti ad ospitare la fortunata bottega.

Lo stesso Guglielmo Caccia, giunto a Milano nel 1614 in fuga da Moncalvo a causa della prima guerra del Monferrato, è con tutta probabilità invitato a sfruttare i vantaggi di una bottega avviata ed organizzata, come quella del Procaccini.

Si spiegano in questo modo le strette connessioni del tempo con il Procaccini e gli altri artisti da parte del pittore monferrino, sempre sotto l’egida del padre Lorenzo Binago.

Nel 1614 il Caccia inizia la decorazione a fresco della cappella della Natività in Sant’Alessandro e quindi fino al 1619 sarà impegnata in una serie particolarmente nutrita di lavori per i luoghi sacri gestiti dai barnabiti o da altri ordini religiosi.

Tra il 1617 ed il 1619, in particolare oltre agli affreschi per la sagrestia sempre in sant’Alessandro, è impegnato nelle pitture parietali della chiesa di San Vittore al Corpo e della chiesa di San Pietro in Gessate. Ad accompagnarlo in queste due campagne è proprio il giovanissimo Daniele Crespi, il quale trova nel Caccia il proprio mentore dopo il maestro con cui ha appreso i rudimenti dell’arte pittorica.

La decorazione della cupola di San Vittore al Corpo nel 1617,  comporta gli affreschi degli Angeli musicanti, nei lacunari quadrati di dimensioni discendenti per rendere l’illusione dell’altezza della struttura. Nei pennacchi sono rappresentati i Quattro Evangelisti e le Sibille. Le quali si alternano ai finestrini del tamburo. La regia generale è affidata al Caccia come la maggior parte dei dipinti. Alcuni soggetti sono di mano esclusiva del Crespi mentre altri sono sicuramente gestiti da entrambi. Uno studio accurato potrebbe fare maggiore luce sulle attribuzioni delle varie scene.

Ancora Daniele Crespi è l’autore delle Tre tele della cappella di Sant’Antonio.

Negli stessi anni i due artisti lavorano a stretto contatto, anche nella cappella di San Mauro presso la chiesa di San Pietro in Gessate.

Le decorazioni parietali originariamente volute da Renato Trivulzio nel 1495, vengono completamente affrescate nuovamente, forse per il cattivo stato di conservazione.

Sulle due pareti laterali e sulla volta Guglielmo Caccia affresca tre scene dei miracoli del santo. San Mauro guarisce una donna della mano inferma, San Mauro guarisce un uomo caduto da cavallo e San Mauro guarisce due ossessi. Daniele Crespi invece realizza la figura di San Mauro sull’altare della cappella stessa.

Purtroppo nell’agosto del 1943, la navata destra alla quale era addossato il convento, viene quasi del tutto distrutta dai bombardamenti. Il civico Archivio Fotografico del comune di Milano, conserva alcune fotografie della navate e delle varie cappelle prima del disastro.

Queste due campagne decorative evidenziano come i due pittori abbiano collaborato assiduamente. Il pittore monferrino nei mesi in cui le impalcature erano montate nelle chiese, deve avere preso letteralmente sotto la sua ala, il giovane scalpitante collega milanese. Ancora una volta sicuramente era stato padre Lorenzo Binago a condurre la regia degli interventi.

Al suo ritorno in patria, Guglielmo reca con sé, unico caso documentato, proprio un’opera di Daniele, che poi passerà nell’asse ereditario al figlio. Si tratta di San Carlo con l’angelo, che la figlia Orsola Maddalena badessa nel convento dell’ordine delle Orsoline a Moncalvo, l’11 febbraio 1651, cita nella valutazione delle opere giacenti in casa del defunto fratello Gerolamo. La figlia precisa nel documento che il padre acquista il dipinto dal pittore Daniele milanese, per cento ducatoni e che alla data dello scritto è dalla pittrice stimato doppie quaranta.

Appena successivamente, tra il 1619 ed il 1620, risale il San Giovanni e Salomè, nella chiesa di Sant’Alessandro in Zebedia. L’opera sorprende per la straordinaria qualità pittorica. La luce è protagonista della scena ed illumina radente i due principali personaggi, lasciando il carnefice e gli altri personaggi nell’oscurità. Le carni consumate e contorte del martire si abbinano in corrispondenza evidente, con quelle lisce e lascive della Salomè. La donna osserva la scena senza tradire alcuna emozione, compiendo una leggera torsione per non lasciarsi sfuggire l’attimo della decapitazione. La tunica del battista di colore rosso, squarcia il centro della tela, mentre la giovane è avvolta in un tessuto giallo ocra che è modulato in spirali sovrapposte. Invenzione scenica che il Crespi ripeterà in altre composizioni.

Il movimento accentuato verso sinistra di tutto il corpo di Giovanni, in modo di lasciare il collo libero per il colpo decisivo, è un’invenzione scenica mirabile che lascia solo immaginare alle menti più argute, il vero orrore che è sottinteso. L’adeguamento ai canoni contro riformati è assoluto come anche la comprensione delle novità luministiche di natura caravaggesca. La torsione esasperata del santo e quella elegante della Salomé, volgono lo sguardo deciso verso il Barocco incipiente.

Nella Pinacoteca Ambrosiana è conservato un disegno che potrebbe costituire un bozzetto per la figura del San Giovanni.

Alla stessa data risale anche l’Adorazione dei Magi, affrescata nella contro facciata della sagrestia, sempre della chiesa di Sant’Alessandro in Zebedia. Anche in questa scena il pittore milanese rivela la sua precoce qualità artistica nella ricerca esasperata di rendere le figure in movimento.

I personaggi in primo piano sono piegati in modo accentuato ed anche la Madonna sembra adeguarsi. Singolare è la postura del re in basso, il quale appare combattuto tra la necessità di avvicinarsi per porgere il dono e nel contempo quella di ritirarsi, imbarazzo e compito al cospetto del piccolo Gesù.

Nel settembre 1621, Daniele Crespi inizia a frequentare l’Accademia Ambrosiana, ma il 7 gennaio 1622 nella riunione degli adepti il suo nome non compare più.

Inizia in questo periodo una forte attenzione per l’arte del Cerano che dirige la scuola di pittura nell’Accademia e per Giulio Cesare Procaccini, sicura figura di riferimento.

Lo stile sembra mutare acquisendo una capacità di maggiore introspezione psicologica nella descrizione dei personaggi, a discapito di una estetica concitazione espositiva. Opere risalenti a questo periodo artistico sono: la Conversione di San Paolo, della Collezione Suida Manning ed in deposito al Metropolitan Museum di New York, il Riposo durante la fuga in Egitto, del Princeton University Art Museum, la Flagellazione del Museo Nazionale di Varsavia, ed il San Sebastiano nel Museo di Brest, il quale condivide con la pala di Sant’Alessandro una certa corrispondenza compositiva.

Sono da accostare al gruppo l’Adorazione dei Magi della Raccolta Ferrario di Busto Arsizio e l’Ecce Homo della Collezione Crespi e passato in catalogo della Christie’s nel 1970.

Oltre al Cerano, Daniele Crespi va nella direzione delle opere aggiornate in chiave milanese di Giuseppe Vermiglio (Alessandria/Milano 1587c. – Milano 1635c.), il quale si distingue per una pittura chiara e smaltata quasi didascalica, sull’esempio della pittura piemontese tra Quattrocento e Cinquecento, con particolare riferimento a Gaudenzio Ferrari ed a Defendente Ferrari. Si tratta di una sorta di ritorno all’ordine ed alla semplicità espositiva. Concetti auspicati da Federico Borromeo nella sua Accademia Ambrosiana avviata nel 1621.

Da considerare che il Vermiglio porta con sé l’esperienza romana, con le novità caravaggesche.

A suffragare lo stretto rapporto tra i due pittori abbiamo l’unica testimonianza grafica conosciuta del Vermiglio, una Testa di Abramo, che riporta l’iscrizione sul retro: Del cavalier Vermiglio maestro di Daniele Crespi.

Al 1623 vanno riferiti i dipinti con le Storie di San Giovanni, nella chiesa di San Protaso ad monachos ed oggi visibile nella chiesa di San Giovanni a Busto Arsizio.

Sempre nella chiesa di San Protaso era nota una lunetta affrescata con la Decollazione del Battista, oggi perduta e ricostruibile mediante un disegno ed il Cristo morto anch’esso visibile nella chiesa di San Giovanni a Busto Arsizio, del Cristo morto è segnalata una variante in Collezione Privata.

Sempre a questa data va ricondotta la Salomé in Collezione Privata milanese ed i due dipinti con la Vita di San Eligio conservati nella Collezione Borromeo all’Isola Bella, che Longhi identifica con quelli un tempo nella chiesa di San Michele al Gallo a Milano.

Daniele Crespi, nonostante l’ancora giovane età, giunge ad una rilevante intensità drammatica che gli permette di di spogliare la composizione dell’impianto fino all’essenziale, con un attento studio degli incarnati e della scena nel suo complesso, registrando alla perfezione il contrasto luce-ombra. L’esito a cui approda è di un’immagine sacra dal linguaggio iconografico ed espressivo inedito che sembra scaturita dalla sintesi dei modi della scuola lombarda dei primi del Seicento con l’incontro dell’esperienza caravaggesca mediata dal Vermiglio.

Esemplare in questo senso è il Digiuno di San Carlo nella chiesa di Santa Maria della Passione a Milano, dove la figura ascetica del santo si rivela come esempio morale e religioso.

Ancora nella chiesa di Santa Maria della Passione sono i dipinti appartenenti a questa fase con il Don Albino Grasso, San Aquilino, il Cristo sorretto da un angelo.

Invece le pale decorate dell’organo sempre della chiesa di Santa Maria della Passione che rappresentano la Lavanda ai piedi, Innalzamento della croce e la Deposizione dalla croce, con i relativi disegni al Louvre ed alla Biblioteca Ambrosiana, parlano un linguaggio ancora differente. Le scene si complicano e si dilatano con l’innesco di un impasto cromatico sontuoso.

Giunge in questo lasso temporale anche la Santa Giovanna Francescana della Basilica della Santissima Annunziata al Vastato di Genova. L’opera ha origine, come già specificato in altro podcast, per la revisione iconografica affidata al vescovo di Novara, in compagnia di altre due tele “milanesi”. La Natività di Guglielmo Caccia e l’Ultima cena di Giulio Cesare Procaccini.

A testimoniare un ambiente chiuso e riferente esclusivamente all’ordine monastico dei barnabiti.

Attorno al 1626 sono licenziate il Martirio di San Marco per la chiesa di San Marco a Novara che è datato proprio 1626 e che offre ulteriori certezza sul rapporto intercorso tra il Crespi ed il vescovo barnabita, anche in ottica genovese. La Strage degli innocenti della Galleria Statale di Monaco, l’Andata al calvario della Pinacoteca di Brera, la Deposizione al sepolcro del Museo di Budapest, con disegno al Louvre, il Martirio di Santo Stefano dei Musei Civici del Castello Sforzesco di Milano in deposito dalla Pinacoteca di Brera, il David placa Saul della Raccolta Ceroni di Milano, il Sant’Agostino della Raccolta Ferrario di Busto Arsizio ed il Davide della Collezione Borromeo di Isola Bella.

A questo periodo risale anche un disegno della Biblioteca Ambrosiana che reca su di un lato una Scena di Giobbe e sul retro uno Studio per una fontana.

Singolare sono le vicende legate alla commissione per i fregi sopra la cappella della chiesa di Santa Maria della Campagna a Piacenza. Si hanno riscontro per alcuni pagamenti dal 1623 al 1626. Le opere identificate sono Tobia e l’angelo e Debora e Barac, datati rispettivamente 1626 e 1628. Tuttavia solo l’ultimo è attribuito al Crespi.

Ancora una volta il pittore sembra in grado nella sua breve carriera di mutare velocemente stile in favore di considerazioni culturali diverse, dovute probabilmente ad una importante attività di studio, di riflessione e di sperimentazione.

Infatti dopo il 1626 medita un aggiornamento sull’anatomia e sull’utilizzo delle tonalità sfumate che lo riconducono alla tradizione cinquecentesca lombarda. Le sottigliezze chiaroscurali si possono considerare protagoniste nell’Incredulità di San Tommaso in Collezione Privata a Busto Arsizio, nella Vergine con il Bambino ed i santi Francesco e Carlo, oggi nella Pinacoteca di Brera, con il disegno conservato presso l’Accademia Carrara di Bergamo e l’Annunciazione del Museo Granet di Aix-en-Provence.

Tra i vari percorsi stilistici Daniele Crespi giunge ad una sorta di maturità dettata dal rigore e dalla originalità. Come nella Pietà oggi al Museo del Prado di Madrid che trova un disegno preparatorio all’Accademia di Venezia. L’opera è un capolavoro di composizione ed impatto iconografico devozionale che viene presa a modello perfino dal Ribera

Stessa considerazione per la Santa Caterina della sagrestia settentrionale del Duomo di Milano, per il San Filippo Benizzi della Pinacoteca Ambrosiana ed infine della pala con Cristo in gloria e santi per la Certosa di Pavia, che viene preparata dai disegni dell’Albertina di Vienna e di Berlino. Cadono in questo felice periodo anche l’Adorazione dei pastori conservata al Castello Sforzesco e la Comunione della Vergine della Pinacoteca di Brera, in deposito presso l’Arcivescovado di Milano.

Continua nella seconda metà degli anni Venti, l’estrema esigenza di sintetizzare la struttura formale degli impianti e di renderli al massimo della chiarezza e semplicità, con una ricerca per schiarire le tinte in direzione della pittura emiliana.

Ecco quindi il Battesimo di Cristo della Pinacoteca di Brera, la Vergine con il Bambino ed i santi Carlo e Francesco della Pinacoteca Ambrosiana, l’Incoronazione della Vergine della Pinacoteca di Modena con il disegno conservato dalla Biblioteca Ambrosiana.

Presso il Castello Sforzesco esiste un disegno per una pala con la Vergine, san Carlo e un santo martire, oggi opera perduta.

La meditazione di Daniele Crespi lo porta anche a realizzare una Ultima cena, oggi nella Pinacoteca di Brera, ispirata allo stesso soggetto di Gaudenzio Ferrari, ma caratterizzata da una personale vena creativa che saranno comuni nelle opere ultime della Certosa di Garegnano e di Pavia.

Rientra il questa ottica pittorica il Cristo che risana il cieco depositata presso l’amministrazione dell’Ospedale San Matteo di Pavia

Il percorso intenso e partecipato dell’artista lo porta quindi nel 1629, ad elevarsi su di un nuovo livello compositivo, in cui si assesta su effetti spettacolari quasi teatrali, dotando i personaggi di una forte dose di retorica nella gestualità che lo avvicina alla pittura bolognese.

Negli affreschi della Certosa di Garegnano a Milano firmati 5 aprile 1629, si esprime proprio con questo aggiornato linguaggio. I dipinti occupano l’intera navata con i busti di Santi e Beati certosini e sei Storie della vita di San Bruno, inframmezzate dalle figure di Angeli, di un Cristo e di San Giovanni e la Maddalena.

L’assidua ricerca per la tensione espressiva e per la forma sono evidenziati da alcuni disegni preparatori conservate in varie istituzioni e collezioni private.

Anche gli affreschi per il coro della Certosa di Pavia, in cui compare la dicitura Daniel Crispus Mediol. 1630, presentano Storie di San Bruno, delle Sibille, Figure di certosini, Evangelisti, Profeti e Storie evangeliche. 

Una nota di cronaca del tempo da considerarsi poco attendibile, segnala come Daniele Crespi sia fuggito da Milano nel 1629, per avere ucciso un uomo a cui aveva fatto indossare un saio per poterlo dipingere. Atto che il pittore ha svolto con il modello morto. Sembra che l’artista fosse riparato a Pavia, e potuto svolgere il ciclo di pitture per la Certosa di quella città.

Anche da Pavia giungono notizie non edificanti per Daniele Crespi. Sembra che avesse avuto difficoltà a trovare una modella per la figura della Madonna. Bloccato per giorni nel completamento della composizione, trova finalmente una giovane contadina che si reca alla Certosa per mendicare un pasto. Alla fine del lavoro il pittore scompare nel nulla proprio come la sua giovane modella.

A confutare l’intero impianto della vicenda è sia il fatto che comunque Pavia era in pieno territorio milanese e quindi soggetto alla stessa legislatura, e sia la notizia che Daniele rientra a Milano già nel corso del 1630, quindi non perseguitato dalle autorità, dove trova proprio la morte per peste il 19 luglio.

Comunque per la vastità della superficie dipinta nella Certosa di Pavia e sia per l’esiguità del tempo di soggiorno nella città lombarda, è probabile che il Crespi sia intervenuto in maniera minima di persona ed abbia invece fornito i disegni preparatori e gli eventuali cartoni per la varie scene, portate a termine da aiuti di bottega o da collaboratori locali.

Rispetto a Milano infatti a Pavia l’aspetto narrativo prevale sull’intensità espressiva e riesce difficile proporre un giudizio sull’insieme.

Daniele Crespi nella sua carriera piuttosto breve, ma intensa  si è mostrato anche un ottimo ritrattista. Il problema è redarre un catalogo certo a lui attribuibile. Sicuro è il celebre Autoritratto conservato al Museo degli Uffizi a Firenze, datato sul retro 1627.

Il Ritratto di Manfredo Settala nella Pinacoteca Ambrosiana, è citato dalle fonti come appartenente alla Galleria Settala. Depone a favore dell’autenticità del dipinto, una incisione tarda presso la Witt Library di Londra e tratta  da un disegno in cui è forse citato per errore, G. B. Crespi. L’opera rappresenta il Ritratto di Manfredo Settala seduto ad un tavolo con gli oggetti della sua collezione, nella stessa disposizione e taglio compositivo presenti nel dipinto il Digiuno di San Carlo, presso la chiesa di Santa Maria della Passione, già citato.

In conclusione Daniele Crespi è un pittore poco considerato dalla critica anche contemporanea. Forse questo è dovuto oltre che alla repentina morte, alla sua inesauribile versalità che lo ha condotto a sperimentazioni continue, senza adagiarsi a lungo su di un modo a lui riconducibile con certezza. Infatti le sue opere, anche suffragate da notizie documentali, sono in genere soggette a diatribe da parte degli storici.

A testimoniare invece la preparazione culturale dell’uomo, oltre che quella dell’artista, grande anche nel disegno, si conosce l’inventario dei beni redatto post mortem il 27 agosto 1630. Risultano nella sua abitazione un gran numero di dipinti, spesso incompiuti ed in particolare una fornitissima biblioteca dove figurano trattati d’arte, libri di anatomia, di architettura, di tecnica prospettica, di antichità romane, di filosofia, letteratura e religione.

Lo studio e la meditazione profonda dei temi figurativi, oltre la severa preparazione culturale, sono la chiave per spiegare la formidabile e mutevole evoluzione stilistica.

Si matura la sensazione che Daniele Crespi affronti le tematiche stilistiche delle varie aree in cui gli artisti del passato avevano prodotto i loro capolavori, per poi procedere di conseguenza ad un personale e tormentato modus operandi di revisione ed aggiornamento della propria pittura. Una ricerca continua ed attenta che poi non ha avuto il tempo di assestarsi in uno stile prettamente riconoscibile, forse a causa della repentina scomparsa.

Daniele Crespi emerge quindi per la propria preparazione culturale oltre che pittorica, tra gli artisti del tempo, i quali sono di solito dotati di grande estro, ma non troppo avvezzi allo studio.

L’importanza del pittore per l’arte lombarda del primo Seicento non è stata percepita dalla generazione che viene subito dopo di lui e nemmeno in seguito. Anche la critica odierna sembra non occuparsene, come invece il pittore meriterebbe.

Opere di questo artista: