IL CINQUECENTO PIEMONTESE. DAL MANIERISMO ALLA PITTURA DELLA CONTRORIFORMA.
La figura di Giovanni Martino Spanzotti (Varese? 1455 – Chivasso ante1528) è determinante per gli esiti della pittura piemontese per tutto il Cinquecento ed oltre.
Il padre apre la bottega di pittore a Casale dove è presente dall’agosto del 1470 ed il fratello Francesco è stato riconosciuto dalla critica come il Maestro di Crea, noto per gli affreschi della cappella di Santa Caterina nel Santuario del Sacro Monte.
Giovanni Martino si rivela precocemente alla metà degli anni Settanta del secolo, con attinenza diretta alla pittura di Francesco del Cossa ed in particolare ai disegni delle vetrate che il pittore ferrarese ha realizzato per la chiesa di San Giovanni in Monte a Bologna. Da questo cartone è tratta la Madonna in trono con il Bambino e quattro angeli, oggi alla Galleria Sabauda di Torino. Ha nello stile di quegli anni la parlata prospettica di Piero della Francesca ed il senso della pittura italiana più aggiornata.
Con il ciclo di affreschi dedicati alla Vita di Cristo nella chiesa di San Bernardino ad Ivrea, tra i più significativi esempi di tutto il Rinascimento, realizzato in un lungo periodo collocabile a partire dalla metà degli anni Ottanta, Spanzotti inserisce gradualmente istanze linguistiche mediate dalla pittura lombarda ed in particolare da Vincenzo Foppa, Bramante, Bramantino e di Zanetto Bugatto.
Questa sorprendente assimilazione in tempo reale di scuole pittoriche importanti, ma lontane dal territorio piemontese, rendono probabile la presenza di Giovanni Martino a Bologna, a Ferrara ed forse addirittura a Roma, come vedremo in seguito. Sicuramente è presente più volte a Milano.
Con il trasferimento a Torino si innescano considerazioni pittoriche più vicine alla tradizione nord occidentale ed in particolare alla pittura provenzale e ligure, di cui il tolosano Antoine de Lonhy è stato il diffusore in ambito piemontese. L’elaborazione della luce, il taglio compositivo e la lezione lombardo emiliana sembrano evolvere in Spanzotti in un esito personale ed alquanto mutevole, forse per la vicinanza di collaboratori e la gestione di una vera e propria scuola pittorica. Dal maestro a Vercelli si impiega come alunno Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma che diverrà, in altri ambiti culturali, un artista di primo livello.
A Torino entra in bottega come collaboratore ed allievo Defendente Ferrari (Chivasso 1480/1485 – Torino 1540c.), così vicino allo Spanzotti che in alcuni casi l’assegnazione dei brani pittorici risulta difficoltosa. Defendente è in grado di condizionare a sua volta il maestro con i suoi modi aspri e luminosi, già acquisiti in proprio. Il suo stile, ricco di preziosismi, colori smaltati e virtuosismi miniaturistici tratti dalla cultura nordica e fiamminga, appare protagonista nella scena pittorica a scapito dell’attenzione per il disegno e per la considerazione prospettica. Come nella vita anche nell’arte, a volte, per compiere un balzo in avanti occorre fare un passo indietro. Defendente, infatti sembra indugiare, per suoi gusti personali, ad una sorta di pittura post-gotica, la quale però gli consente di ottenere un grande successo anche di natura collezionista.
Allo Spanzotti si deve il salto in chiave piemontese, dal Gotico ancora insinuante al Rinascimento incipiente. La sua lezione oltre ai collaboratori diretti si dirige a Casale ai fratelli Aimo e Balzarino Volpi, il primo ne è anche cognato avendo sposato la sorella Dorotea e quindi ai casalesi arrivati da fuori quali Giovanni Francesco Caroto da Verona ed il fiammingo Pietro Grammorseo che diverrà genero di Francesco Spanzotti, sposandone una figlia.
Sarà comunque Gaudenzio Ferrari che in ambito valsesiano prima e poi diffusamente in Piemonte e quindi a Milano, raccoglierà l’eredità di Giovanni Martino, arricchendola di un estro pittorico enorme associato ad una capacità di invenzione che a sua volta farà scuola.
Gaudenzio Ferrari (Valduggia 1480c. – Milano ), nasce in Val Sesia, assoggettata al tempo al ducato di Milano, in una data presunta intorno al 1480.
Il contesto culturale e formativo passa soprattutto dalla figura di Giovanni Martino Spanzotti, alle opere presenti sul territorio del maestro casalese. Primo fra tutti il sontuoso ciclo a fresco della Vita di Cristo della chiesa di San Bernardino ad Ivrea.
Il Siniscalco del Marchese Guglielmo VIII, Marco Scarognino, è il committente del polittico Madonna con il Bambino, tra San Giovanni Battista e San Francesco con il donatore Marco Scarognino, che arriva nella cappella della chiesa dei francescani a Varallo. L’artista è colui che convenzionalmente risponde al nome di Maestro di Crea, conosciuto soprattutto per essere l’autore degli affreschi della Cappella di Santa Margherita nel santuario di Crea, voluti appunto dal Marchese Guglielmo VIII. Oggi la critica ha individuato dietro l’appellativo di Maestro di Crea la figura di Francesco Spanzotti, fratello di Giovanni Martino.
Dalla chiesa di San Giacomo a Rimasco in val Sermenza, giunge la Madonna con il Bambino di Aimo Volpi, cognato di Giovanni Martino Spanzotti. Di qualche anno più tarda la tavola pare fare i conti con i seguaci milanesi di Leonardo, conosciuto mediante la diffusione di riproduzioni grafiche.
Con l’ultimo decennio del Quattrocento si avviano i lavori del Sacro Monte di Varallo. Il 14 aprile 1493 Bernardino Caimi riceve in donazione la chiesa e il convento di Santa Maria delle Grazie e quanto già eretto “super parietem”, in cima al monte, tra cui la cappella “subtus Crucem” da cui arriva il gruppo del Compianto sul Cristo morto (Pietra dell’unzione). Le sculture lignee del complesso sono attribuite alla bottega milanese di Giovanni Pietro e Giovanni Ambrogio De Donati mentre la luce pittorica che le avvolge fa pensare nuovamente al gusto spanzottiano. Ancora più antico e non attribuibile ai De Donati è il Cristo calato giù dalla basilica dell’Assunta, ma per secoli e fino al 1980, presente all’aperto in cima alla fontana davanti al santuario.
Secondo la testimonianza tardo cinquecentesca, ma affidabile del Lomazzo, Gaudenzio si forma nella bottega milanese di Stefano Scotti, anche se manca ogni riferimento documentario. Nella città ducale ha modo di immergersi nel clima artistico più aggiornato.
In particolare nell’ultimo ventennio del secolo è presente Leonardo da Vinci, che si distingue per una particolare sensibilità ai moti dell’animo umano ed allo sfumato nella pittura. Ma è soprattutto il Bramantino, allievo di Donato Bramante da Urbino, ad influenzarne il gusto e successivamente lo stile. L’artista milanese ha una attenzione particolare per il senso prospettico a cui inserisce un’astrazione quasi metafisica.
Gli esordi coincidono con l’attività dello Scotti nelle sue valli natali ed in particolare con la Cappella del Sepolcro della Vergine al Sacro Monte di Varallo, i cui affreschi sono ricostruiti nella Pinacoteca di Varallo come erano presenti “super parietem” risalenti al 1495c. Si distinguono le scene della Assunzione della Vergine, Apostoli e Angeli cantori, Apostoli ed Angeli Cantori, Concerto angelico e Paesaggio. Il ciclo decorativo esprime una cultura milanese aggiornata dai fatti ferraresi che sollecitano gli artisti lombardi fino agli anni Settanta del Quattrocento e quindi successivamente dal nuovo linguaggio bramantesco. Viene da pensare che il percorso da apprendista di bottega sia iniziato proprio con l’incontro della bottega e del suo maestro proprio a Varallo e che quindi si sia protratto nel tempo a Milano, per poi ritornare periodicamente al lavoro nella val Sesia.
Ai primi anni del secolo e comunque prima del 1506, si situa un suo viaggio a Roma con probabile soggiorno a Firenze ed in altre città lungo il percorso. Nella città eterna scopre il mondo antico che si rivela nel sottosuolo e le fantastiche decorazioni “a grottesca” che sono assimilate e rivisitate dagli artisti rinascimentali e rimbalzano oltre che nelle suggestioni del Perugino, anche nella sale romane del Pinturicchio, nell’Orvieto del Signorelli e nelle creazioni di Filippino Lippi. Del pittore umbro in particolare, ha modo di osservare e studiare a fondo le opere le quali sono presenti anche alla Certosa di Pavia ed in Sant’Agostino a Cremona. Negli scritti ancora del Lomazzo il Perugino è definito più volte come “maestro di Gaudenzio”.
Compagni di viaggio si presume potessero essere il Bramantino stesso ed Eusebio Ferrari. Purtroppo nessun documento è stato ritrovato per illuminare questo interessante periodo, importantissimo per gli sviluppi pittorici dei vari personaggi implicati.
In realtà Gaudenzio sembra riuscire a fondere in una unica complessa soluzione una serie enorme di influenze in parte provate a Roma nella prima parte del pontificato di Giulio II. Perugino, Filippino Lippi, Bramante, Bramantino, la cultura prospettica lombarda, le decorazioni a grottesca fino alla pittura del pittore provenzale Josse Lieferinxe passato per le esperienze milanesi, e ravvisabile nel digradare del pavimento a losanghe.
Con questa mole di esperienze pittoriche registrate e maturate nella Cappella Scarognino a Varallo e nel Polittico di Sant’Anna a Vercelli, tra il 1507 ed il 1509, avviene per la prima volta la frattura dell’unità formale spanzottiana-defendentesca in area vercellese. L’influenza di Leonardo ed in particolare del secondo periodo fiorentino e milanese appare sempre sotto traccia.
Nella figura matronale di Maria che raccoglie il bambino dalle braccia di Sant’Anna, Gaudenzio mostra di conoscere la tavola di Leonardo oggi al Louvre e la quale era forse nota a Milano dal 1506 e che però avrebbe potuto osservare già a Firenze. Il capolavoro di Leonardo comparirà a Casale in una data imprecisata forse a metà del Cinquecento con il ritorno di Federico Melzi dalla Francia e ci rimane fino al 1639 con la visita nella capitale ducale del cardinale Richelieu che la requisirà per donarla al re.
Dalla tradizione piemontese dello Spanzotti di Ivrea, giunge quindi alle novità del panorama milanese con le citazioni del favorito Bramantino, ma anche i volti e le turbe psicologiche di Leonardo. Arriva ancora a citare la pittura centro italiana del Perugino, del Pinturicchio e del Signorelli fino a soffermarsi sulle stampe in distribuzione al tempo di opere del Mantegna e del Durer. Trova il modo anche di citare liberamente il gruppo del Laocoonte, ritrovato a Roma nel 1506.
L’insieme delle suggestioni culturali si evolvono nel pennello di Gaudenzio accompagnate da una vena creativa importante ed originale che ne permettono il riconoscimento di una scuola pittorica autonoma in ambito piemontese e ne designano il successo anche nella difficile ed affollata piazza milanese.
Accanto a Gaudenzio, per almeno un ventennio agli esordi del secolo, si muove un altro personaggio di notevole spessore, Eusebio Ferrari. Il cognome non rivela un legame di parentela tra i due artisti.
Eusebio è originario con tutta probabilità di Vercelli, figlio di Bernardino di Pezzana, e lo possiamo individuare nell’anno 1500 come il “maestro Eusebio fabricatori”, progettista e fondatore della chiesa di san Sebastiano a Biella.
Architetto di ascendenza bramantesca è notevole anche l’attività nell’ambito pittorico. A seguito di un viaggio a Roma introduce modelli centro italiani di ispirazione rinascimentale. Le decorazioni a grottesca vengono elaborate nel palazzo protonotario Annibale Paleologo, oggi palazzo Verga a Vercelli negli anni tra il 1505 ed il 1508.
Alterna l’attività di architetto progettista a quella di pittore. Vicino a Gaudenzio di cui è testimone nella stipula di alcuni atti notarili, si muove nel solco figurativo del maestro valsesiano, mostrando una certa autonomia espressiva abbinata ad un alto livello qualitativo, come nella Natività tra san Gerolamo e l’arcangelo Gabriele, oggi a Magonza, ma proveniente dalla chiesa di san Paolo a Vercelli.
Sembra cessare di essere documentato nei primi anni Venti, quando scompare probabilmente a causa della peste.
Forse a seguito della commissione al Perugino del Polittico della Certosa di Pavia datato 1499, nei primi anni del Cinquecento si compie un viaggio a Roma da parte di una serie di importanti artisti dell’area piemontese e lombarda.
Il viaggio sicuramente avvenuto è decisivo per l’aggiornamento di coloro che saranno i protagonisti delle sorti pittoriche del Piemonte occidentale.
Secondo il trattato del Lomazzo stampato nel 1584 i maestri di Gaudenzio Ferrari vanno ad individuarsi nel milanese Stefano Scotto, attivo nella Venerando Fabbrica del Duomo ed addirittura nel Perugino. Questa fonte risalente ancora al Cinquecento e quindi degna di considerazione, non vincola ad allargare la carica di influenzer che operavano al tempo nella città eterna, quali Luca Signorelli, Pinturicchio, Filippino Lippi ed altri protagonisti del Rinascimento italiano, che hanno appena lasciato il segno o lo stanno per lasciare.
Alcune fonti tarde prive di consistenza hanno diffuso la notizia, assurta al ruolo di leggenda, per cui Gaudenzio fosse presente come aiuto di Raffaello alle Logge Vaticane.
Tra le date indiziate del viaggio spicca proprio il 1500. In quell’anno si svolge infatti l’ottavo Giubileo della chiesa romana, indetto da papa Alessandro VI Borgia, grazie alla bolla Inter multiplices del 28 marzo 1499. E’ lo stesso papa a varcare in ginocchio la Porta Santa il 13 aprile 1500, dando inizio ufficialmente all’anno santo.
Il 29 giugno crolla il soffitto nei palazzi apostolici ed il papa catalano, controverso fautore di uno sconsiderato nepotismo, considerato morto, esce indenne grazie ad una trave rimasta intatta nel muro.
Il Giubileo dell’anno 1500 è il primo che riesce ad avvalersi veramente della promozione formidabile della stampa. La Bibbia Latina con 42 linee per pagine è stata stampata più di cinquanta anni prima, nel 1448.
Il binomio offerta in denaro-indulgenza, a cui sono sottoposti la moltitudine di fedeli, e la vita dissoluta della gerarchia clericale, innesca soprattuto nei paesi del nord una forte reazione anti curiale romana e l’accusa diretta di simonia.
Questo quadro in cui matura il Giubileo dell’anno 1500, avrà come conseguenza, nel corso del secolo, la scissione della Chiesa Latina di Occidente, in protestante e cattolica e quindi la reazione del concilio di Trento.
Con Gaudenzio partecipa sicuramente al viaggio a Roma anche Eusebio Ferrari. Egli lascia testimonianza di sé con l’incisione “Eusebio de Vercelli” posta sulla volta gialla della Domus Aurea. Lo stesso artista sarà artefice delle decorazioni a grottesca nel palazzo protonotario Annibale Paleologo di Vercelli e presunto autore, forse indiretto, delle complesse impaginazioni di palazzo Alciati. Sempre riconducibili al senso di modelli archeologizzanti del centro Italia appaiono la Madonna della Provvidenza nella chiesa di San Giuseppe a Borgomanero e l’Angelo annunziante, già nella chiesa delle Grazie o della Visitazione a Vercelli ed oggi al Museo Borgogna.
Anche la presenza di Giovanni Martino Spanzotti è ravvisabile, secondo alcuni, in una incisione sulla volta della Domus Aurea. Il casalese potrebbe avere effettuato il viaggio d’esordio nel corso degli anni Settanta del Quattrocento proseguendo dal suo itinerario bolognese, altamente probabile. Una seconda puntata a Roma potrebbe essere stata effettuata successivamente, proprio in compagnia degli altri colleghi artisti.
Con Gaudenzio ed Eusebio sicuramente presenti nella trasferta romana, se si aggiunge quella probabile di Giovanni Martino, allora occorre inserire anche la figura di Defendente, sempre sodale con il maestro casalese.
Nel gruppo potrebbero essersi aggiunte anche altre personalità di prestigio come Francesco Spanzotti, fratello di Giovanni Martino, forse un giovanissimo Pietro Grammorseo genero futuro di quest’ultimo e qualche esponente della famiglia Giovenone. Naturalmente allo stato attuale delle conoscenze sono solo illazioni.
Nel caso di una spedizione così copiosa potrebbe essere stata la Arcidiocesi a farsi promotrice per la parte vercellese ed il marchesato dei Paleologi per la parte casalese.
In entrambi i casi il Giubileo romano ed il conseguente desiderio di ossequiare il potente papa Borgia, possono avere esercitato un’attrazione formidabile.
Con il gruppo di pittori piemontesi si riscontra quasi certamente la figura del Bramantino. Il grande artista milanese è il fautore, lui stesso, di una rivoluzione del linguaggio figurativo secondo canonici prospettici e luminosi originali. Egli è documentato a Roma nel 1508 dove soggiorna per almeno un anno. Il 4 dicembre 1508 è pagato per alcuni dipinti ancora da eseguire per il Vaticano. Ha sicuramente modo di vedere e studiare gli affreschi appena realizzati da Melozzo da Forlì, che saranno fondamentali nella sua maturazione artistica.
Secondo il Vasari due storie dipinte a fresco dal Bramantino, volute da papa Nicola V sono state “buttate a terra” da papa Giulio II, per fare posto ai lavori di Raffaello. Il Bramantino potrebbe avere fatto precedere la sua lunga permanenza del 1508, da un primo viaggio proprio in compagnia dei colleghi vercellesi.
La commistione tra le opere dei grandi maestri rinascimentali del centro Italia con quelle in area lombarda guidate dal Bramantino, ma che annoverano, tra gli altri, anche Vincenzo Foppa, Donato Bramante, Bernardino Butinone e Bernardo Zenale, saranno alla base della nuova visione pittorica che si vede inizialmente sui muri dell’oratorio di san Bernardino di Ivrea e che attecchirà gradualmente nelle botteghe e nei cantieri delle valli e delle città piemontesi.
Se la bottega di Eusebio Ferrari sembra spegnersi con il titolare, nei primi anni Venti del Cinquecento, a causa della peste, sono i Giovenone prima ed i Lanino poi a proseguire in Vercelli la tradizione della pittura, con Gaudenzio come mentore per entrambi, in modi ed in tempi differenti.
Una terza famiglia di pittori è attiva nel corso del Cinquecento ed è quella degli Oldoni. Originari di Milano e trasferiti a Vercelli nella prima metà di Quattrocento, in contemporanea con Giovenone e Lanino sempre ispirati ai modi di Gaudenzio si muovono Boniforte Oldoni il Giovane, ed i fratelli Ercole e Gaspare Oldoni, autori di varie collaborazioni di cantiere e di una produzione autonoma importante ed a ancora pienamente da scoprire
I Giovenone sono testimoni di una lunga stagione artistica che copre più di un secolo. Nonostante vengano citati spesso dai documenti come provenienti da Novara, sono stabilmente inseriti nel contesto vercellese. Il capo famiglia Amedeo conduce una importante bottega artigiana che si dedica alla carpenteria in legno ed in particolare alla costruzione di ancone.
Amedeo ha almeno tre figli maschi. Il primogenito Giovanni Pietro segue l’attività del padre e viene documentato più volte come l’autore del corredo ligneo di dipinti per importanti committenze.
A sua volta uno dei figli, Giovanni Battista si segnala come autore di alcuni dipinti, compiendo una carriera artistica di una certa rilevanza e morendo nel 1573.
Il figlio minore Giuseppe, seguendo una lucida ed intelligente strategia di avvicinamento famigliare all’astro nascente Gaudenzio Ferrari, si impiega come suo allievo con atto redatto in data 9 gennaio 1521. Il rapporto si trasforma in collaborazione a lungo termine fino alla tarda stagione milanese, che vede Gaudenzio operare con successo.
L’altro figlio Gerolamo Giovenone, probabilmente secondogenito, è colui che diviene uno dei più importanti pittori del Cinquecento in area piemontese. Risulta molto amato dalla critica del tempo per i suoi modi misurati e nel contempo raffinati, frutto di equilibri tra sensazioni rivolte al passato ed altre visioni più moderne.
Gerolamo Giovenone nasce intorno al 1485/1490 a Vercelli e viene inviato ad apprendere il mestiere in una bottega fuori dall’ambito cittadino, come era giusto secondo le indicazioni della tradizione pittorica. Si impiega nell’orbita di Giovanni Martino Spanzotti, probabilmente nel periodo in cui apre l’attività a Chivasso. Il vercellese opera a stretto contatto con Defendente Ferrari, altro collaboratore del pittore casalese, con cui condivide oltre ad una stretta attività formativa anche l’intervento in alcune opere.
Intorno al 1514 Gerolamo sembra staccarsi dai modelli spanzottiani defendenteschi per affrontare un serio percorso di aggiornamento rivolto a Gaudenzio Ferrari.
Le suggestioni stilistiche e formali apprese dal maestro valsesiano, da questo momento si moltiplicano anche per la stretta collaborazione con lo stesso e la naturale condivisione dei modelli, disegni e cartoni.
L’entrata in bottega del più giovane fratello Giuseppe rende ancora più stretto il legame tra Gaudenzio e Gerolamo, che però non impedisce a quest’ultimo di costituire una alternativa autonoma e ragionata presso una certa tipologia di committenti più rivolti alla rassicurante pittura della tradizione vercellese.
Anche tre dei figli di Gerolamo svolgono una attività artistica documentata. L’unico però a effettuare un percorso riconoscibile è Giuseppe detto Il Giovane, per distinguerlo dallo zio. Proprio Giuseppe Giovenone il Giovane, come si evince da un documento del 1583, è colui che si occupa della parte più consistente del patrimonio grafico di bottega lasciato dal padre, in accordo con i fratelli Amedeo e Paolo.
Dal 1529 Gaudenzio dopo le esperienze a Novara, Varallo e Morbegno è presente a lungo a Vercelli, in Sant’Eusebio, in San Lorenzo, nella Santissima Trinità, in San Marco e soprattutto nella chiesa di San Cristoforo dove vedranno la luce sia un ciclo di affreschi del transetto dedicati alla Storie della Maddalena e alle Storie della Vergine, che la pala detta la Madonna degli aranci. Nella stesura dell’atto è proprio Gerolamo Giovenone a garantire per lo “straniero” Gaudenzio.
Le opere dalla portata rivoluzionaria riescono a smuovere in senso moderno il gusto imperante ancora legato alla tradizione.
In data 22 luglio 1530 compare come testimone nella casa di Gaudenzio Ferrari insieme al figlio dello stesso, un giovane artista che fin da subito si è distinto per la propria vena pittorica ispirata.
Secondo la legge in vigore alla data, il giovane deve avere già compiuto l’età di ventuno anni.
Si tratta di Bernardino Lanino, i cui modi molto personali legati ad un raffinato patetismo costituisce per Gerolamo Giovenone, e per il figlio Giuseppe Giovenone il Giovane, un esempio con cui aggiornare il proprio linguaggio.
La bottega di Gerolamo Giovenone con gli anni centrali del secolo mostra un livello qualitativo notevole ed una affermazione incontrastata sull’esigente mercato vercellese e piemontese, per poi attestarsi, nel tempo, su di una ripetuta produzione di bottega coadiuvato dai figli, Pietro Francesco e Gerolamo.
Il maestro, muore a Vercelli poco dopo l’atto testamentario redatto in data 27 agosto 1555 e comunque prima del 9 settembre, data in cui è documentato come già defunto.
Bernardino Lanino vede i natali presumibilmente a Mortara dove è anche presente Francesco, fratellastro da parte di madre, il quale intraprende la carriera ecclesiastica.
Con atto in data 2 marzo 1528 si impiega come alunno nella bottega dello sconosciuto Baldassare de Cadeghis di Abbiategrasso, ma in data 22 luglio 1530 è già presente in qualità di testimone nella casa di Gaudenzio Ferrari. Questo documento è importante per accertare a tale data, secondo legge, l’età di 21 anni di Bernardino e quindi per considerare a ritroso che al momento della presenza ad Abbiategrasso aveva già 19 anni. Età piuttosto tarda per potersi avviare all’attività di pittore come apprendista di bottega. Questo probabilmente spiega la necessità di bruciare le tappe e l’intraprendenza pittorica figlia di una contemporanea maturità come uomo.
Più difficile, ma da non escludere, è ritenere che l’esperienza di Abbiategrasso fosse stata preceduta da un iniziale periodo da apprendista di bottega, magari nella natia Mortara o addirittura a Vercelli. La suggestione di ritrovare Bernardino Lanino appena quattordicenne nella bottega di Ottaviano Cane, al tempo già con l’attività ben avviata, in quel di Trino dovrebbe essere accompagnata da ritrovamenti documentali per essere proposta.
Del giovane pittore si accorge proprio il maestro valsesiano che lo vuole già, nel 1530, al lavoro nel cantiere di Varallo soddisfatto evidentemente di un collaboratore così attento ed abile nella adesione ai suoi modi pur con la tendenza a spogliarli di ogni festosa accensione per privilegiare un approccio dal segno malinconico.
Negli anni inziali il Lanino sembra ondeggiare tra il linguaggio innovativo e geniale di Gaudenzio e la rassicurante pittura di tradizione del Giovenone.
Con la Pala di Ternengo, oggi visibile alla Galleria Sabauda di Torino, commissionata in data 24 aprile 1534 grazie all’intercessione del fratello canonico, si ravvisa, pur mantenendo il senso linguistico di Gaudenzio, l’evidenza di una identità autonoma e ben definita. I personaggi assumono una caratteristica dolcezza nei tratti con la resa del chiaroscuro morbido e sinuoso, in cui la luce soffusa e soffice stabilisce le partiture cromatiche in un insieme delicato e raffinato.
Questi modi divengono tratti distintivi della pittura di Bernardino Lanino, nonostante i continui mutamenti, le sperimentazioni e gli aggiornamenti di volta in volta intrapresi.
Il 22 aprile 1452 riconosce ed accoglie in casa i figli naturali Cesare e Margherita, entrambi nati da Leona, moglie di Giovanni Pietro della Sguroria, versando a quest’ultimo le spese per il passato mantenimento.
Sanata la situazione familiare pregressa, l’anno successivo Bernardino prende in moglie Dorotea, figlia del pittore Gerolamo Giovenone, il quale versa al genero 110 scudi del sole, come dote.
Con le esperienze biellesi al servizio della potente famiglia Ferrero, che conta nel tempo diversi vescovi, si avvia anche alla carriera nell’ambito del ducato di Milano, con le esperienze a Saronno, Novara e Milano.
Con la morte di Gaudenzio Ferrari, Bernardino è chiamato tra il 1546 ed il 1548 al primo intervento milanese con il cantiere nella basilica dei Santi Apostoli e San Nazaro Maggiore, conosciuta come San Nazaro in Brolo. Il ciclo degli affreschi dedicato alle Scene di vita di Santa Caterina, è allogato inizialmente a Gaudenzio e viene quindi effettivamente realizzato dal pittore vercellese con la collaborazione di Giovane Battista della Cerva.
L’episodio conferma come in quel periodo storico i collaboratori storici di Gaudenzio Ferrari, Bernardino Lanino, Giovane Battista della Cerva e Giuseppe Giovenone il Vecchio, ereditano gran parte delle committenze milanesi. Costituiscono a tal fine una vera e propria società, che risulta però già sciolta l’1 settembre 1548.
Nella stagione milanese del pittore vercellese, gli stilemi guadenziani vengono brillantemente superati per affrontare una profonda meditazione sulla pittura di Leonardo e dei leonardeschi, come Bernardino Luini e Cesare da Sesto comprese le più tarde suggestioni del Bramantino.
Il paesaggio si ampia con vedute rocciose in un respiro dilatato permesso da colori distribuiti per sfumature morbide e tenui.
Opera esemplificativa è il Battesimo di Cristo, realizzato per la distrutta chiesa di San Giovanni in Conca ed oggi, in deposito da Brera, presso il battistero di San Filippo a Busto Arsizio. La pala è dipinta nella bottega di Vercelli tra il 1553 ed il 1555 e quindi trasportata a Milano.
Nella frenetica attività degli anni centrali del secolo, resa possibile da una bottega vercellese infaticabile e coordinata che permette un livello qualitativo alto e costante della produzione, va però considerata il diverso ruolo rivestito dal Lanino a Vercelli ed a Milano. Nel primo caso pittore ufficiale della città, attivo per l’intera classe egemone, nel secondo pittore dei rappresentanti del clero e dei luoghi pii.
Negli anni a venire Bernardino alterna moduli figurativi diversi grazie al mestiere acquisito che gli permette di aderire al desiderio dei committenti. Si avvicina anche alla pittura di maniera, mostrando di essere al passo con i tempi, come nella celebre Madonna del cane del Museo Borgogna, firmata e datata 1563.
Tuttavia il moltiplicarsi delle commissioni affidate alla prestigiosa bottega vercellese e le opere di carattere devozionale e propagandistico post tridentino, favoriscono il lavoro in collaborazione della bottega ed una conseguente forte omologazione stilistica.
Negli anni conclusivi della sua carriera, minacciata dalla salute e dagli attacchi di gotta, Bernardino continua a lavorare coadiuvato dai figli Pietro Francesco e Gerolamo, che perpetuano l’attività forti delle importanti richieste del mercato e del tesoro della bottega fatto di cartoni, disegni e bozzetti.
Bernardino Lanino muore a Vercelli tra il 26 novembre 1582 ed il 25 aprile 1583.
Il figlio naturale riconosciuto Cesare, che nel 1568 viene accusato dal padre di essersi appropriato di materiale vario pittorico oltre che di denaro, svolge l’attività prettamente in altre città per poi godere, negli anni Settanta, del buon nome paterno per accettare lavori di decorazione nella città di Vercelli.
L’episodio del furto e della conseguente denuncia, fa comprendere quanto siano importanti gli strumenti di lavoro di cui si avvale una avviata bottega pittorica. In particolare la necessità di dotarsi dei cartoni preparatori, essenziali nel perpetuare le immagini nelle grandi decorazioni a muro come nelle pale d’altare.
Gli altri due figli Pietro Francesco e Gerolamo si ritrovano a gestire una importante e blasonata attività senza essere all’altezza della fama paterna. Le opere ripetono stancamente gli stessi moduli compositivi evidenziando l’incapacità di rappresentare i volti delle figure e di gestire la luminosità e la definizione delle scene.
Si apre una nuova ed indispensabile stagione di collaborazione, in cui si insinua un giovane pittore proveniente dal piccolo paesino di Montabone.
Nell’arco del Cinquecento l’arte rinascimentale, con le proprie regole stilistiche legate alla proporzione ed all’equilibrio della forma, dello spazio pittorico ed ai colori spartiti con metodo alla ricerca della luce dagli esiti raffinati, viene gradualmente assimilata degli artisti manieristi, i quali vedono nei grandi maestri del recente passato un esempio da imitare ed irraggiungibile. Quindi in lungo processo di maturazione giungono a esasperare alcuni concetti fino ad arrivare a rivoluzionare lo spazio, contorcere le figure e spartire i colori per contrasti accesi.
Giorgio Vasari nelle sue Vite, la cui prima edizione è del 1550 descrive il Manierismo con la prima definizione nella accezione di stile.
Per il grande artista che pubblica un vero e proprio trattato di storia dell’arte, la pittura moderna inizia con Giotto ed ha una graduale e costante evoluzione che raggiunge l’apice con i grandi maestri del Rinascimento, quali Leonardo, Raffaello e Michelangelo. Nel tempo che viene successivamente gli artisti pur dotati di elevata tecnica e di limpido genio, non possono fare altro che imitare ed accontentarsi di dipingere “alla maniera di!”.
La definizione erudita del Vasari, nel corso dei secoli più recenti, assume un significato negletto declinato prevalentemente in senso dispregiativo, trasformandosi nel termine “Manierismo”. Solamente la critica dei primi del Novecento rivaluto la corrente pittorica dominante nel Cinquecento e la pone addirittura alla base di certe avanguardie di inizio secolo.
Il Manierismo si espande dal 1515 da Firenze e poi dal 1527 da Roma. Dopo il sacco, e le devastazioni indiscriminate apportare dai Lanzichenecchi, la città eterna esercita un vigoroso richiamo verso tutti quegli artisti fuggiti in precedenza.
Il Manierismo assume veri e propri connotati stilistici guardando grandi capolavori del Rinascimento e soprattutto le novità introdotte da Michelangelo in pittura, scultura ed architettura. Gli artisti che si approcciano alla corrente manierista la conducono successivamente, oltre l’imitazione passiva per giungere all’esasperazione dei concetti, fino a giungere ad uno stile che oggi possiamo definire autonomo.
In questa stagione matura, dopo la metà del secolo, le figure tendono a contorcersi con le varie parti del corpo disposte in direzioni contrapposte in una visione serpentina.
I colori si accendono con suggestioni innaturali e mutevoli negli spazi contigui. La prospettiva non segue le regole classiche e le invenzioni sono palesemente frutto della mente fantastica e non della adesione alla realtà naturale delle cose.
Dagli anni Sessanta alcuni artisti aderiscono ad una sorta di “ritorno all’ordine” ante litteram, conducendo le proprie creazioni ad una ritrovata moderazione. Il senso manierista ritorna alla rappresentazione della natura e del vero, ritrovando il piacere dell’equilibro tra forma e colore.
Tra i molteplici fautori di questa tarda stagione manierista si pone Federico Zuccari, il quale si pone come maestro di una moltitudine di pittori piemontesi e tra questi Guglielmo Caccia, chiamati ad esercitare le proprie abilità nella Grande Galleria ducale di Torino.
Con la conclusione del Concilio di Trento, avvenuta nel 1563, le considerazioni riguardo alle espressioni figurative nell’arte mutano drasticamente.
Gli artisti sono chiamati all’adesione pedissequa delle norme della controriforma con la descrizione strettamente biblica delle scene dipinte.
Nell’ultima parte del secolo gli artisti che sottoscrivono gli atti di committenza e che hanno come controparte l’élite ecclesiale, sono chiamati al rinnovo dell’iconografia dei luoghi di culto cattolico e vedono moltiplicate le occasioni di lavoro.
Se nel corso del Cinquecento gli atti notarili sono formulati con chiarezza e nel dettaglio, nella concezione tridentina arrivano ad una minuziosità al limite della pedanteria. I personaggi da inserire sulla tela sono descritti nella quantità, nella dimensione e nell’ordine di rappresentazione. I colori da utilizzare vengono elencati nella tipologia e nella predominanza. Anche le cornici e le macchine d’altare, come i tabernacoli lignei e non si esimono dalla preventiva analisi.
I colti ed intransigenti committenti togati rifiutano l’acquisizione del lavoro ed il il conseguente pagamento, se l’esito non coincide con quanto stabilito nell’atto notarile.
Molti sono i casi descritti negli atti documentali, di furibonde lotte giuridiche che conducono a liti insanabili, al rifiuto dell’opera e nel migliore dei casi al riciclo della stessa in altri ambiti meno severi, magari con uno corposo sconto sul costo finale.
Con il giungere del nuovo secolo, le cose non mutano sostanzialmente fino ad una nuova improvvisa rivoluzione in pittura. Con Caravaggio la scena diviene terribilmente reale al limite del decoro, in cui la luce sfonda una coltre di buio per cui i soggetti principali emergono come protagonisti assoluti.
Il pittore lombardo evidenzia quanto la pittura prima di lui sia antica come concezione e avvia una serie di proseliti al cambiamento in senso moderno.
Tra questi innovatori troviamo un giovane Nicolò Musso, pittore casalese che dal 1607 è presente a Roma. Con il suo ritorno in patria nel 1618 il caravaggismo si diffonde anche in terra piemontese. Anche Giuseppe Vermiglio nato verosimilmente ad Alessandria nel 1587, assimila a Roma le novità del maestro lombardo per poi riportarle a Milano intorno agli anni Venti del secolo, non solo con un eccezionale modo pittorico tra manierismo e caravaggismo, ma anche realizzando diversi temi tratti direttamente dal repertorio del Merisi.
Lo stesso Guglielmo non è impreparato in quanto reduce dalla stagione milanese ed ha avuto modo di sperimentare gli effetti luministici e veristi in diversi lavori come ben testimonia il ciclo fantastico di Canepanova.
Con la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, si irradia in tutta Italia ed in Europa una ulteriore importante corrente artistica che porta con se una rinnovata temperie estetica e culturale.
Il Barocco in qualche modo, si presenta come l’evoluzione della cultura controriformata e del concetto più rivoluzionario del Manierismo.
Con la ricerca per il senso persuasivo dell’arte, vengono introdotti elementi di forte instabilità che conducono l’opera creativa, pittura, scultura, architettura che sia, ad assumere in se il concetto del movimento e della privazione di equilibrio.
Si innescano esplosioni cromatiche e giochi di luce mentre le figure si lanciano in contorsioni esasperate in cui gli arti sembrano staccarsi dal corpo, i volti e gli sguardi non celano i motti dell’animo più reconditi ed il terrore, la gioia, la sorpresa assumono forti valenze simboliche oltre che estetiche.
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